UOMO NUOVO A MATERA - 2004 - per la giornata mondiale contro la pena di morte

Caro Angelo, Oggetto del mio interesse particolare è, come sai, la questione antropologica che credo il tuo lavoro fortemente richiami, anche per mezzo del suo costante rimando etico e morale che ogni antropologia filosofica non può non tenere a fuoco nel proprio sforzo di riflessione. Al centro del lavoro di Angelo Palumbo sta la questione del "mutamento antropologico" considerato tanto nel suo andamento naturale, quanto nella sua dimensione storica. Giunte alla loro definitiva crisi tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento le tesi più o meno ottimistiche e salvifiche di "filosofia della storia", l'uomo contemporaneo, postmoderno, viene rappresentato nella cultura filosofica come colui che s'interroga sul mondo non più a partire dallo stupore ma a partire dall'orrore. In un mondo nel quale si pratica l'esercizio d'infliggere sofferenza all'uomo da parte dell'uomo al di là di ogni possibile comprensione, torna l'interrogazione filosofica sul tema del male come punto critico del pensiero. Il secolo appena concluso c'impone di tornare a interrogarci sul male, muovendo in noi la domanda sul perché l'umanità «invece di entrare in uno stato veramente umano», sprofondi in un «nuovo genere di barbarie» (Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo). Anche di fronte alle crisi dei totalitarismi, cui pure abbiamo assistito, l'evidenza del male, il continuo produrre sofferenza, non si lascia neutralizzare dalla potenza del sapere, né dalla conquista, attraverso di esso, degli apparati tecnico-scientifici teoricamente rivolti a migliorare le condizioni di vita dell'uomo che invece, spesso, moltiplicano su di una pluralità di piani, la produzione industriale di sofferenza, anche sempre più sofisticata. Sotto accusa finisce, allora, la concezione strumentale della razionalità non solo come dispositivo produttore di giganteschi effetti di dolore, ma anche come spina dorsale di un'iniquità quotidiana che si accompagna alla stupidità dell'indifferenza e alla totale mancanza di senso di responsabilità. Nell'ordine nascente della globalizzazione sembra prevalere un principio di polverizzazione delle coscienze produttore di insensibilità diffuse in una sorta di resa anestetizzante al soverchiante potere organizzato nel nome del principio di un profitto possibile e diffuso che, in realtà, si realizza solo accidentalmente e poche volte per i molti e, invece, progettualmente e sistematicamente pei i pochi. «L'individuo si arrende alla prepotenza degl'imperativi sistemici e, quando questi producono sofferenza, ne diventa corresponsabile senza avvertire alcun senso di colpa oppure, al contrario, restando vittima di psicosi di colpevolizzazione collettiva» (Portinaro, I concetti del male). A questo punto, il male che, nel sapiente contrappunto dei temi, dei testi e delle immagini, Angelo Palumbo ci presenta, appare come la tragica rappresentazione di un'oppressione che la nostra epoca vive, il cui carattere perturbativo fortemente ci richiama all'assunzione di responsabilità. Ne risulta una domanda ancora più inquietante rispetto alla stessa tragicità delle immagini: che il male prodotto dall'azione umana è assai più pesante di tutte le sofferenze che la natura riesce a infliggerci e che con il crescere del "benessere", si moltiplichino a dismisura i prezzi di dolore e sofferenza che un'altra umanità paga per tutto questo, in un procedere di azioni che costantemente aprono l'orizzonte ad un futuro sempre più prossimo alla catastrofe, all'incidente (P. Virilio, L'incidente del futuro). In questo quadro, dolente l'umanità corre verso non tanto il disordine generalizzato quanto verso la negazione delle stese radici della civiltà moderna che nella figura orribile del Leviatano di Hobbes, trovarono, attraverso la nascita dell'idea di Stato, e poi di giustizia, le condizioni della possibile libertà umana contro il bellum omnium contra omnes. Così, ciò a cui il lavoro di Angelo Palumbo ci richiama, può essere colto in una presa di coscienza per cui il compito dell'umanità non è una competizione con le leggi della natura a chi più sofisticatamente dimostri di sapere attivare strategie di sofferenza, quanto, invece, se, attraverso la natura, dalle sue stesse "strategie" che ci hanno fatto emergere, non sia dato all'uomo, la possibilità di "opporsi" ad essa attraverso l'impegno a combattere ovunque il dolore si presenti, a lavorare non soltanto per opporsi alla sofferenza o alla morte naturale quanto soprattutto a combattere contro la sofferenza e la morte che lo stesso agire umano è in grado d' infliggere all'uomo, alla vita, a tutto ciò che è altro da sé. Esser "uomo nuovo", allora, significa "soltanto" imparare a "usare" la nostra ragione, la nostra coscienza, la nostra stessa identità vivente avendo per fine (kantianamente) l'uomo, cioè la lotta contro il dolore, contro la sofferenza contro la morte della vita e della ragione. 
 Paolo Augusto Masullo
 Docente di Antropologia Filosofica presso l’Università della Basilicata




Commenti

Post più popolari